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Il 13 giugno il popolo ticinese sarà chiamato ad esprimersi su una modifica costituzionale promossa dal Partito Comunista, con cui si propone l’introduzione nella carta fondamentale del principio della sovranità alimentare. Ma a rivendicarla non sono solo le comuniste e i comunisti: sono le orticoltrici e gli orticoltori ticinesi che vedono le loro zucchine finire nella biomassa, sono le viticoltrici e i viticoltori ticinesi che quest’anno non saranno retribuiti per il prodotto del loro lavoro e della loro passione, sono le consumatrici e i consumatori che non tollerano lo spreco alimentare.

Gli importatori di pane industriale surgelato sono raddoppiati in 10 anni. Il latte è in crisi, al produttore vale poche centesimi al litro. Il vino invenduto durante la chiusura dei ristoranti è tutto nelle cantine mentre nei supermercati si trova vino dall’estero in azione che assicura un prelibato margine per i commercianti. Quasi il 40% dei vini importati sono pagati a meno di 1.50 CHF al litro. La produzione industriale di carne emette 4 volte più CO2 della carne svizzera proveniente da bestiame nutrito con l’erba. Sono forse sufficienti queste motivazioni per cominciare dalla Costituzione a rimettere ordine nel settore più bistratto, contraddittorio e sacrificato alla globalizzazione?

Il Partito Comunista è cosciente della portata straordinaria della modifica dell’art. 14 della Costituzione come con altrettanta pragmaticità promuoviamo gli stessi temi ad altri livelli: è pendente al consiglio comunale di Bellinzona la mozione di Alessandro Lucchini per orti e frutteti pubblici, durante la prima ondata pandemica abbiamo depositato al Gran Consiglio la mozione per un banco alimentare statale e due anni fa abbiamo lanciato la proposta del fondo di ricerca per affrontare il cambiamento climatico.

Dai paesi depauperati dal neo-colonialismo all’occidente opulento in cui la sovranità alimentare deve significare consapevolezza di quel che si mangia, di come viene prodotto e da chi, contro un’alimentazione per ricchi a base di frutta e verdura e un’alimentazione per poveri satura di zuccheri, grassi e sale, perché “l’obesità è la fame dei paesi ricchi”, sentenzia Martin Caparros. Un’amara realtà confermata dal deputato UDC Pamini che ritiene corretto che i bassi redditi si nutrano di cibo spazzatura.

Le nostre rivendicazioni devono essere rivolte contro i grandi trasformatori e distributori affinché paghino onestamente la materia prima, senza ricatti di acquisto della stessa all’estero per molto meno, contro i tagli alla ricerca, alla consulenza cantonale e alla formazione in questo settore, per il trasferimento della conoscenza in modo partecipativo dalla sperimentazione alla produzione, per un maggiore controllo statale dei prezzi, per la sovranità alimentare.

Con la sovranità alimentare non si può e non si deve tornare a modelli vecchi e superati, tutt’altro, si vuole dare un quadro a tante iniziative spontanee, associative, imprenditoriali e istituzionali che danno un valore diverso al cibo, ne consolidano il legame con il territorio, ne fanno una parte fondamentale dell’identità, sensibilizzano all’educazione alimentare sana, promuovono il rispetto per l’ambiente e le risorse. Ne cito alcune di queste: i distributori automatici spuntati come funghi durante la pandemia, le piattaforme di vendita diretta che si sono diffuse negli ultimi anni e i pionieristici gruppi di acquisto e di community supported agriculture.

Concretamente la sovranità alimentare permette di riequilibrare i rapporti di forza tra piccole aziende agricole ticinesi e le grandi aziende agricole d’oltralpe o d’oltreconfine, tra piccoli produttori/trici agricoli e grandi trasformatori e distributori, avvicinare il consumatore e il produttore, promuovere attivamente filiere corte e locali, rafforzare l’impegno di strumenti già esistenti quali Marchio Ticino, CCAT, ecc., estendere i progetti pilota di mense a km 0 e fattorie didattiche, diffusione di mercati contadini con prodotti tipici, favorire il trasferimento delle conoscenze e dell’innovazione dalla ricerca al campo attraverso il Centro professionale del verde di Mezzana e il centro di Agroscope a Cadenazzo.

Solo in un secondo tempo tutte queste misure avranno anche un impatto sul prezzo, permettendo la formazione di un prezzo giusto che copra i costi di produzione e sia accessibile a tutta la popolazione, rendere più attraente la professione, arrestare la perdita di terreno agricolo. Le colleghe e i colleghi fautori del mercato libero che hanno seguito fin qui il ragionamento possono concludere con me che, se le aziende agricole ricevessero un reddito dignitoso, non avrebbero più bisogno dei pagamenti diretti. I pagamenti diretti sono quello che l’industria alimentare e la grande distribuzione non pagano all’agricoltore e allora deve intervenire lo Stato, a coprire le spalle dei grandi marchi.

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