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Sul Corriere della Sera del 17 aprile 2018 si poteva leggere un articolo intitolato: “Scuola, l’America fa dietrofront: più conoscenze, meno competenze” che riprendeva i dati emersi in un articolo intitolato “Why american students haven’t gotten better at reading in 20 years” pubblicato su “The Atlantic” il 13 aprile 2018. I due testi sono eloquenti, visto che nel piano di studi del nostro Cantone l’approccio per competenze assume una certa rilevanza.

Premettiamo che, benché i primi lavori di ricerca relativi alla “competency based education” risalgano all’inizio degli anni ’70, fu sotto la presidenza di George W. Bush nel 2001 che gli Stati Uniti diedero avvio al programma dal nome altisonante “No child left behind”, con cui si spalancavano le porte all’approccio per competenze in quel Paese, responsabile di un netto impoverimento della didattica e un peggioramento dell’uguaglianza di possibilità degli allievi sia per motivi di estrazione sociale sia per ragioni di collocazione geografica.

Oggi, quindi, di fronte alle difficoltà riscontrate fra gli studenti statunitensi nelle capacità di lettura, un gruppo di esperti consultati dal National Assessment of Educational Progress, ossia l’ente nazionale di valutazione degli Stati Uniti, è giunto alla conclusione – peraltro piuttosto naturale senza scomodare fior fior di esperti – che “per capire un testo bisogna poter contare su un solido bagaglio di conoscenze, mentre il sistema scolastico americano da vent’anni a questa parte ha puntato tutto e solo sulle competenze, a scapito della ricchezza del curriculum”.

Ci preme dunque essere rassicurati dal Consiglio di Stato e dal DECS in particolare, e presentiamo in tal senso i seguenti interrogativi:

  1. Fino a che punto sono paragonabili l’approccio per competenze adottato dagli Stati Uniti e quello introdotto nella nostra realtà e più in particolare nel “Piano di studi della scuola dell’obbligo” (2015)?
  2. Come si potrà evitare, nell’ambito della riforma “La scuola che verrà”, che l’approccio per competenze non si trasformi “in un impoverimento generale dell’insegnamento, concentrato non più sulla trasmissione di un bagaglio culturale e scientifico di base, bensì sullo sviluppo di un’imprecisata serie di abilità pratiche funzionali unicamente alle più recenti esigenze del mercato del lavoro” come temeva il Sindacato Indipendente degli Studenti e Apprendisti (SISA) in un suo documento dello scorso anno?
  3. Considerato che il noto studioso e insegnante belga Nico Hirtt nel suo saggio del 2009 intitolato “L’approche par compétences: une mystification pédagogique” lo identifica quale strumento di deregolamentazione che rafforza la disuguaglianza sociale del sistema educativo, quale sarà nelle previsioni del Governo l’impatto della didattica per competenze sull’uguaglianza di possibilità nella scuola pubblica ticinese?
  4. L’approccio per competenze sorge dal dibattito fra scuole ideologiche diverse nell’ambito del pensiero pedagogico: quella del cognitivismo, del comportamentismo anglosassone, ecc. Quale libertà è garantita ai docenti che non aderiscono a queste posizioni ideologiche?
  5. Per l’elaborazione dei nuovi piani di studio a quali scuole di pensiero pedagogico è stato fatto riferimento? Quale “tipo ideale” di studentesse e studenti è sotteso a tali prospettive pedagogiche?

 

  1. Su quali basi epistemologiche il DECS ritiene che la risposta alle difficoltà attuali della scuola e della formazione dei giovani, illustrate da una volontà di riforma, possa risiedere nell’implementazione e ulteriore sviluppo di un approccio per competenze?
  2. Le cosiddette “competenze trasversali” sono concettualmente mutuate dall’inglese “soft skill”, concetto introdotto negli anni ‘70 nell’esercito degli Stati Uniti come si può evincere anche dalla seguente fonte militare: http://www.dtic.mil/dtic/tr/fulltext/u2/a099612.pdf. Quale coerenza ravvisa il Consiglio di Stato tra questa scelta e l’Art. 2 della Legge della scuola, in particolare rispetto ai punti dove si afferma che (a) la scuola educa a una “visione pluralistica e storicamente radicata nella realtà del paese” e che (b) “sviluppa il senso di responsabilità ed educa alla pace, al rispetto dell’ambiente e agli ideali democratici”?
  3. Al giorno d’oggi le aziende, in particolare quelle di dimensioni multinazionali, richiedono ai dipendenti sempre più competenze a scapito delle conoscenze. Esse investono infatti solo successivamente su un sistema di conoscenze e valori in linea con gli obiettivi aziendali, formando quindi i dipendenti secondo le proprie strategie di management piuttosto che agli ideali democratici. Rispetto a ciò chiediamo al Governo:
    • 8.1  quale coerenza intrattiene tale prassi con la Legge della scuola, in particolare in riferimento al suo art. 2?
    • 8.2  Non ravvisa il Governo una discrepanza evidente tra la promozione del “principio di parità tra uomo e donna” nella legge e la discriminazione salariale del 20% in media delle donne nel settore privato?
    • 8.3  Quale conciliabilità si ravvisa tra la formazione di studentesse e studenti a “misura di azienda” (per cui di libero mercato) e la proposta della scuola di “correggere gli scompensi socio-culturali e di ridurre gli ostacoli che pregiudicano la formazione degli allievi”?
  4. Abbiamo preso atto dei contenuti della risoluzione assembleare del Movimento della Scuola intitolata “Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese. A che punto siamo?” del febbraio scorso, in cui si chiedeva anche di avviare con i docenti un progetto di revisione critica del “Piano di studi”. Non ritiene il DECS che sia giunto il momento di aprire una procedura di consultazione mirata, coinvolgendo le associazioni magistrali e della scuola e i movimenti studenteschi, sull’approccio per competenze in quanto modello pedagogico? Essendo quest’ultimo un aspetto strutturale, ma fra i meno dibattuti, delle attuali riforme scolastiche non solo nel nostro Cantone, l’esercizio non sarebbe inutile.

Massimiliano Ay, deputato del Partito Comunista

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